La meditazione di consapevolezza e Somatic Experiencing®
25 Maggio 2021Alanis Morissette intervista Peter Levine
Una rock star internazionale e uno psicologo, ricercatore, ex consulente sullo stress per la NASA, si incontrano su una piattaforma podcast che oggi nel 2021 è diventata il nostro pane quotidiano ma che cinque anni fa era di frontiera, quantomeno in Italia.
Navigando in rete attirata dalla potenza artistica di Alanis Morissette e dalla curiosità attorno al tema del trauma e della sua risoluzione, ho scoperto “Conversations with Alanis Morissette”, un podcast in cui la cantante canadese intervista nell’arco di tre anni i più illustri insegnanti, terapeuti, scrittori e leader in diverse filosofie ed orientamenti nel campo della psicologia, della neurobiologia, dello sviluppo, tutti però accomunati dall’intenzione di voler supportare con il loro lavoro i processi di guarigione e di integrazione.
Il podcast di Alanis spazia quindi su temi come il trauma, l’attaccamento, il rapporto corpo-mente, l’apprendimento, fino alle sfere più sottili della spiritualità. Insomma tutti temi che per chi come me ama la ricerca continua e la condivisione della conoscenza, intrigano un bel po’.
La conversazione tra Alanis Morissette e Peter Levine è del 2016, dura un’ora ed è in inglese. È interessante, fresca, ha un bel ritmo ed è una sorta di sintesi dinamica dell’approccio di Somatic Experiencing® rispetto al trauma e la sua guarigione, i disturbi da stress e l’autoregolazione. Perciò, per chi vuole muovere i primi passi nel mondo SE® e conoscere come funziona è senz’altro un buon inizio ascoltarla.
Qui ne trovate la traduzione dei passaggi più salienti. Data la lunghezza del testo ho pensato di suddividerlo in paragrafi, ognuno con un titolo, una sorta di guida alla lettura che permette a chi vuole di scorrere il testo e di leggere solo la parte per la quale sente maggiore interesse e curiosità.
Buona lettura!
Cosi tutto ebbe inizio. Il caso di Nancy.
Levine torna indietro nel tempo, a quando negli anni 70 stava facendo il suo Phd in biofisica a Berkeley. Erano tempi in cui la gente iniziava a parlare della connessione tra mente e corpo e Levine si occupava dello sviluppo di una metodologia per raggiungere il rilassamento attraverso la consapevolezza corporea.
Un giorno un suo amico psicoterapeuta gli parlò di una sua paziente la quale era passata da mille medici perché venissero a capo dei suoi mille sintomi - fortissima sindrome premestruale, fatica cronica, attacchi di panico, fobie, terrore sociale. L’amico pensò di inviarla a Levine pensando che se fosse riuscita a rilassarsi un po’ magari le sarebbe passata l’ansia. Curiosamente però, quando Levine le fece fare un esercizio di rilassamento grazie al quale il battito cardiaco si abbassò, ecco che la paziente improvvisamente ebbe un attacco di panico.
Per Levine fu chiaro che proprio il rilassamento induceva il panico.
E qui Levine disse - sue testuali parole - la frase più stupida che uno possa dire in una situazione del genere.. “Nancy, you must relax!” “Nancy, ti devi rilassare!”
Il battito cardiaco di Nancy continuò ad abbassarsi. Levine mentre lo racconta dice che nonostante siano passati un sacco di anni, sente tuttora al solo ricordo di quel momento, una morsa nel petto.
Nancy aveva un battito bassissimo… 50 battiti al minuto, era pallida e diceva “Dottore dottore sto morendo” - e questo sappiamo che è proprio il cuore dell’attacco di panico, la sensazione che stai morendo -. Era uno stato di shut down, di spegnimento. È l’immobilità tonica che si riscontra negli animali.
Alla domanda di Alanis se si trattasse più di un collasso o di una risposta di congelamento, Levine dice che si trattava più di un collasso e quando il battito cardiaco aumentava - spiega - era nella risposta di iperattivazione del simpatico1 mentre quando il battito diminuiva e precipitava verso il basso era nello shut down, nello spegnimento dato dal parasimpatico2, che è un’altra risposta di sopravvivenza.
A quel punto Levine ebbe un insight (una intuizione) che cambiò per sempre il corso delle cose per Nancy e per lui. Lo raggiunse l’immagine di una tigre, come fosse accucciata sul pavimento dello studio. Si rivolse allora alla ragazza e le disse: “Nancy c’è una tigre, corri corri, sali su quelle rocce e fuggi”. Per i successivi 30 minuti - è ancora vivido il ricordo di Levine - le gambe di Nancy iniziarono a muoversi come se stesse correndo, il corpo tremava, si muoveva senza sosta.
Quando tutto si placò, Nancy volle condividere con Peter cosa fosse successo dentro di lei: “Quando mi hai detto della tigre, l’ho vista anch’io e il mio corpo voleva correre, salire sulle rocce, ho tremato, vibrato e poi ho guardato giù e ho visto me stessa da bambina a 4 anni, tenuta stretta dai dottori che volevano farmi un’operazione per togliermi le tonsille”.
Fu chiaro per Peter che il corpo di Nancy all’epoca era pronto per scappare ma era stato trattenuto giù con la forza, intrappolato, impotente.
Grazie all’esperienza della tigre da cui, nell’immaginazione, Nancy doveva fuggire per mettersi al riparo, con un ritardo di 20 anni, il suo corpo aveva avuto finalmente l’opportunità di completare la risposta neurofisiologica alla minaccia che non era stato in grado di completare allora.
Un antidoto alla ritraumatizzazione: la titolazione.
“Anche una singola lacrima può essere connessa con un profondo movimento interno”
Nel ricordo di quell’evento, Levine, oggi, si rende conto che se non fosse stato assistito da un intervento divino o dalla fortuna - o come aggiunge Alanis da una canalizzazione - avrebbe potuto facilmente ritraumatizzare Nancy.
Quando le persone che hanno vissuto un trauma lo rivivono nella storia, il nostro sistema nervoso autonomo non fa differenza tra il vero evento traumatico e un pattern di iper attivazione simile. Ecco perché Levine sottolinea di aver sviluppato con SE® un metodo che permette di titolare3 per digerire, integrare le parti che compongono l’esperienza.
Racconta Peter di quanto negli anni ’80 si utilizzasse molto la terapia ad esposizione prolungata, dove il rischio di ritraumatizzazione era veramente alto.
La stessa cosa vale per la catarsi, di cui parla Alanis, sostenendo che la catarsi così come la drammatizzazione, la teatralizzazione delle emozioni - cosa nella quale come artista si riconosce - è un modo per mettere in scena sentimenti, emozioni, che ti porta però lontano da esse, fino a prenderne distanza: “la catarsi può essere meravigliosamente di intrattenimento ma può generare distanza e come se non bastasse può generare assuefazione o meglio dipendenza”.
Si tratta proprio di una dipendenza da sostanze prodotte dal nostro stesso organismo, racconta Levine, il quale fece fare un esperimento al fratello John che negli anni ’70 studiava le endorfine. Peter sosteneva che nei gruppi di catarsi che si tenevano regolarmente ad Esalen in California, ci fosse una sorta di dipendenza da parte dei partecipanti, i quali dimostravano di sentirsi in uno stato di forte ansia prima degli incontri di gruppo. Il fratello era scettico, ma poi dovette ricredersi osservando la relazione tra il dolore emotivo e quello fisico.
Adesso noi sappiamo che i meccanismi cerebrali sono pressoché identici nel dolore fisico e in quello emotivo e quando noi proviamo dolore rilasciamo endorfine, oppiacei potenti quanto la morfina. “È un high, un picco” - spiega Levine - Negli eventi catartici, oltre alle endorfine, c’è un rush di adrenalina e questo è buono, dà una sensazione di potere, ma ciò che manca qui è una guida, una direzione verso ciò che chiamiamo aggressività sana. Rimanere nella ricerca catartica porta ad evitare di entrare in contatto con il nostro potere più profondo fatto di potenza, sì, ma anche di vulnerabilità”.
È ovvio, è piacevole perché poi ti senti più calmo, rilassato.
È un pò come fare un’ora di workout - aggiunge Alanis - ma alla fine sei sì più rilassato ma il tuo lavoro non ha ridotto le correnti dell’energia del trauma nel tuo corpo. È il caso dell’high dei runner.
Si tratta ovviamente di una dipendenza sana (healthy addiction), che però limita la persona e, come dice Alanis “la catarsi non ti avvicina alla tua agency” (capacità di agire).
Nei suoi libri “Somatic Experiencing” e “Trauma e Memoria”, Levine parla di come la gente può muoversi dall’impotenza del trauma verso l’empowerment (potenziamento), la connessione profonda, la vera connessione con se stessi, un piccolo passo alla volta, dice Levine: “una singola lacrima può essere connessa con un profondo movimento interno delle emozioni”.
Le risorse e la loro importanza
Parlando della titolazione e delle risorse, dice Alanis che le sue da sempre sono state le immagini e l’immaginazione. Lì non c’è angoscia.
C’è gente che è passata attraverso tremendi eventi traumatici ma riesce a trovare la strada per la ripresa. È lì che si scopre di avere delle risorse, interne ed esterne, per esempio un parente o un vicino di casa che hanno protetto il bambino, o la natura, un animale. L’animale porta la sensazione del calore, della connessione. La risorsa può essere la religione, la creatività, la compassione, la cura, la capacità di andare avanti, gli archetipi.
Gli archetipi poi sono fantastici - dice Levine su suggerimento di Alanis - perché aiutano a tenere le cose fuori dal personale, sono impersonali e allo stesso tempo globali. Questo è un punto importante perché noi tutti abbiamo la tendenza ad isolarci con i nostri traumi, ma gli archetipi, essendo universali, ci connettono con l’umanità intera.
La risonanza
Racconta Levine che prima dell’ultima Intifada a Gerusalemme - ricorda che stava facendo lezione ad una classe - lavorava con un analista molto famoso che lavora sulle vittime dell’olocausto. C’erano palestinesi e israeliani e una persona chiede se con SE® si possa lavorare anche senza sapere quale sia la storia ma considerando solo i sintomi. E la risposta era si. Quell’uomo, che faceva parte del pubblico, decide allora di lavorare con Levine e dice di avere dei dolori lancinanti alla schiena, da trent’anni. Levine si interessa a quella forte tensione alla schiena e comprende che il dolore che ci stava sotto non era uguale da entrambi i lati ma più intenso nel lato destro. Levine chiede gentilmente di stare in contatto con quel dolore e gli propone il tocco, le sue mani sulla schiena a sostenere il dolore. Incontrato il dolore in questo modo, l’uomo inizia a tremare, a scuotersi e a sudare, a rilasciare.
Al termine si alza una mano dal pubblico per dare un riscontro su ciò che ha visto. E’ una donna elegante che commenta “all’inizio ho pregato che tu potessi ritraumatizzarti, perché tu potessi sentire il dolore che ha provato la mia gente, ma poi è successo qualcosa dentro di me, uno shift, un movimento nel mio corpo; improvvisamente ho sentito una profonda compassione per te e per noi e ho realizzato che finché non troviamo la pace dentro di noi non troveremo pace gli uni con gli altri”.
Somatic Experiencing® - sottolinea Levine - è un approccio che tentiamo di rendere disponibile per diverse professioni e aree di bisogno, per poter toccare questo tipo di temi, renderli accessibili ai più, affinché le persone possano sentire un livello di “okayness” (sono ok!) e bontà nel loro corpo, affinché non siano in attesa di una minaccia, di un pericolo che arriva da un momento all’altro, perché, se rimaniamo in allerta poi il pericolo accade e lo incontri. Lo trovi nel micro e nel macro, lo trovi ovunque tu guardi, è frattale.
Lotta, fuga o congelamento
Alanis domanda: ”Rispetto alle nostre risposte di lotta, fuga e congelamento o di coinvolgimento sociale, cosa decide da che parte vada il nostro sistema? È il grado di pericolo o la mancanza o la quantità di resilienza o una combinazione dei due?”
Qui Levine risponde citando un suo grande amico, Stephen Porges, il padre della Teoria Polivagale, il quale ha osservato e spiegato bene le nostre risposte rispetto alla minaccia.
Il coinvolgimento sociale è il sistema che condividiamo con i mammiferi, che vorremmo attivare per primo di fronte alla minaccia .. se si può .. e noi abbiamo questi istinti e impulsi estremamente potenti che sono organizzati al livello del tronco encefalico superiore, del limbico, dell’ipotalamo ecc. Questo sistema neurologico è piuttosto recente, torna indietro di 90 milioni di anni ed è prevalente nei primati, nelle scimmie .. infatti le scimmie e i loro piccoli fanno “good parenting”, come dire, hanno un buon approccio alla genitorialità.
Poi c’è il cervello rettile4 - 260 millioni di anni fa - ed è la risposta di lotta e fuga, dove si libera l’adrenalina.
Infine, quello più primitivo che origina 500 milioni di anni fa è lo stato di shut down, la chiusura, il congelamento, e questo lo condividiamo con le creature dei fondali marini, dove l’ossigeno per la sopravvivenza è scarso e il loro sistema per sopravvivere va in shut down, ovvero in chiusura, in caso di necessità.
In condizioni di minaccia sopraffacente la nostra risposta più normale è la risposta simpatica di lotta o fuga, se non siamo in grado di fuggire o di rispondere con la forza, allora ci prepariamo alla condizione di shut down perché ci prepariamo alla morte che, in maniera incredibilmente efficace riduce il terrore e il dolore, è un anestetico naturale ed è legato alla produzione di endorfine e abbassa il battito cardiaco. Come Nancy, che aveva il battito bassissimo perché si preparava a morire.
Al bebè succede la stessa cosa. Quando urla nella culla e l’adulto non arriva a prenderlo in braccio e a regolarlo - perché i bebè hanno bisogno di madre e/o padre per trovare la regolazione. Il bambino va in shut down, in congelamento, un sistema già presente e disponibile alla nascita. Alanis a questo proposito racconta della volta in cui da bambina si era rotta un braccio ed era stata portata all’ospedale dai suoi genitori .. le erano venute labbra e dita blu, i suoi avevano dovuto lasciare la stanza e i medici, avvicinandosi a lei, le avevano detto che nonostante fosse necessaria un’operazione, in quelle condizioni non era possibile, altrimenti l’avrebbero persa…
Alanis spiega che il battito cardiaco allora era debole, ecco perché non era il momento giusto per fare l’operazione. Si trovava nell’immobilità.
Uno si prepara a morire, aggiunge Levine riportando alla memoria Nancy, che si preparava da anni a morire.
Alanis pensò con terrore “Oh Dio sto morendo” ma i medici la rincuorarono con gentilezza: “Sweetheart you’r not gonna die (Tesoro non morirai)”. E queste parole l’hanno aiutata a ritornare nel range di un battito cardiaco di resilienza.
L’incidente di Peter Levine e il potere della connessione
Come nel primo capitolo del libro “Somatic Experiencing”, Peter Levine racconta nel podcast del suo incidente e del ruolo che ebbe la donna, una pediatra che casualmente passava di li e che gli chiese “C’è qualcosa che posso fare?” e Levine “Yes, just be with me (Sì, rimani con me)”. Allora lei si sedette accanto e gli tenne la mano. I paramedici poi non riuscivano a capacitarsi del fatto che una volta in ambulanza, il battito cardiaco di Peter fosse assolutamente regolato e lui dice ridendo di non perdere mai occasione per raccontare cosa accade nel sistema nervoso per evitare la traumatizzazione, perciò all’epoca raccontò loro cosa aveva funzionato per ritornare nella regolazione.
Qui Levine sottolinea quanto sia importante che le categorie professionali così esposte costantemente al trauma, possano essere informate, perché le parole e le cose che fanno possono fare una grande differenza rispetto al trauma. E aggiunge che “le persone che lavorano con SE® diventano sempre più interiormente connesse con la loro conoscenza interiore, con il loro vero Sè. E questo riguarda entrambi, sia gli operatori SE®, sia i clienti”.
Quando una persona cade o ha un incidente Levine dice “I’m a doctor (Sono un dottore)” per non perdere l’opportunità di stare vicino alla persona e rassicurarla che andrà tutto bene. È gentilezza supportata dalla conoscenza della fisiologia. È buon senso.
Saper rallentare, rimanendo connessi: questo è l’antidoto, dice Levine.
Noi abbiamo bisogno della connessione, funzioniamo cosi, siamo disegnati per stare con altre persone; specie quando siamo feriti, traumatizzati, ne abbiamo bisogno.
Tutti coloro che vengono sottoposti ad anestesia hanno bisogno di un conforto prima di lasciare lo stato di veglia, vogliono e devono essere rassicurati. Lo stesso vale per i bambini che hanno bisogno fino all’ultimo della presenza dei loro genitori che, se sufficientemente regolati, possono rassicurare adeguatamente il bambino prima di entrare in sala operatoria, promettendogli che saranno lì al suo risveglio. Nel libro “Il trauma visto da un bambino” Maggie Kline e Levine ne parlano approfonditamente.
Quanto abbiamo bisogno di essere rassicurati, non solo da bambini, e quanto è facile farlo se siamo regolati!
Ci sono situazioni e modi che dipendono dall’età del bambino: quando il bimbo è molto piccolo
c’è bisogno di un contatto ventrale, da ventre a ventre associato a movimenti “embrionici” di contenimento e conforto. Poi ci sono i bimbi più grandi, qui ci possiamo sedere vicino a loro e possiamo chiedere loro il permesso di mettere la nostra mano sulla schiena, nel rispetto dei loro confini. Quella mano fa una differenza immensa.
Alanis e Peter traendo spunto da qui passano poi a parlare del grande tema dell’attaccamento, che è la base del nostro modo di stare nel mondo, con noi stessi e con gli altri. Si può riparare nel corso della vita, nella relazione terapeutica, nella relazione di coppia, di amicizia. Per esempio Levine di solito lavora con le coppie, ma talvolta quando lavora individualmente con un partner lascia l’altro assistere, perché è importante notare quali sono le ferite dell’altro per poterlo capire.
Dall’identificazione alla disidentificazione
Quando siamo bambini ci identifichiamo con le nostre emozioni. Alanis erompe in una risata sonora e dice che allora si sente ancora una bambina, mette le mani avanti e dice ..”noi artisti siamo totalmente emozionali, ci identifichiamo tanto con le nostre emozioni”.
Levine aggiunge che la nostra corteccia prefrontale cresce nel tempo e non finisce di svilupparsi fino ai nostri 20 anni e aggiunge ridendo che… nel suo caso sente sia maturata solo a metà dei 60 anni e Alanis cavalcando la battuta… a 41… e poi continua raccontando che quando noi lavoriamo col trauma costruiamo connessioni tra le nostre risposte emozionali istintive e la abilità di osservarle. Questo ha a che fare con la disidentificazione che si potenzia con la meditazione e, nel linguaggio di SE®, è la titolazione lo strumento che serve per non ritraumatizzare il cliente.
Alanis invita Levine a fare un esempio pratico:
Una persona sente per esempio una chiusura nel petto.
Levine invita all’osservazione:
- Ok, la chiusura che senti ha una forma o una misura?
Stai sentendo questa sensazione che non è piacevole ma osservandola e tentando di scoprire che ha una forma, una misura e dove si trova, stai portando la corteccia prefrontale a guardare alla sensazione.
- Mentre la senti, nota se diminuisce o aumenta o si trasforma in qualcosa d’altro.
- Oh si… posso iniziare ad osservare che c’è un formicolio nelle dita.
- Oh, e mentre senti questo formicolio, noti se è piacevole o spiacevole in qualche modo?
- Beh noto che è un po’ piacevole e sento più calore…
Quindi, spiega Levine, si entra assieme al cliente in un processo che va dallo stress al piacere. Avanti e indietro, dice Alanis, che comprende bene il linguaggio SE®, identificandosi e disidentificandosi quasi, sottolinea Alanis: notare attivamente le sensazioni e nominarle è una versione di titolazione.
Alanis trae le sue conclusioni e dice “E questo aiuta a regolarci, perché ti dà la possibilità gradualmente di aumentare la tua capacità, la tua resilienza anche perché impari che hai delle capacità di auto-regolazione”.
Levine spiega che persone che non sono state incontrate e rispecchiate nella loro vita, si trovano spesso al termine di un incontro terapeutico estremamente risorsate ma, appena escono ecco che finiscono dentro alla attivazione5 più profonda perché sono dipendenti dalla terapia per stare bene. Se il terapeuta, dice Levine, aiuta il cliente a sviluppare queste capacità di auto-regolazione il cliente poi può muoversi attraverso le attivazioni della vita con una sorta di sensazione di agency, di potere personale. Aggiunge Alanis: la gente sente l’empowerment, il potere di essere in grado di navigare attraverso questi “brief solitary moments”, brevi momenti di solitudine o lunghi che siano.
Meditazione, yoga e trauma
Alanis introduce il tema della meditazione, che talvolta induce una sorta di rilassamento. Per alcune persone, che hanno il “trauma nel loro corpo, nella loro psiche, nelle loro viscere” - dice Alanis impaurita “lasciarli da soli nella meditazione è pericoloso”.
È necessario, dice Levine, che gli insegnanti di Meditazione Mindfulness siano informati sul trauma e sul sistema nervoso, perché cosi possono guidare in maniera competente le persone, in quanto - aggiunge Levine - quando chiudi gli occhi ed entri dentro di te, li incontri il tuo trauma e allora o scivoli dentro al buco nero o ti dissoci ed entri nel mondo della beatitudine dove tutto è meraviglioso ma diciamolo, rimane un’ombra che resta lì e quando meno te l’aspetti ecco che arriva…
Quindi una combinazione che prevede la Meditazione Mindfulness con la consapevolezza del trauma sarebbe l’ideale - propone Alanis - perché può essere molto pauroso e sopraffacente rimanere a lungo ad occhi chiusi e immobili.
Lo stesso vale per lo yoga. Perciò una pratica di yoga informata sul trauma sarebbe necessaria. Ricorda a questo proposito Levine, che Bessel van der Kolk ha fatto uno studio approfondito sullo yoga che evidenzia quanto possa essere molto più efficace nel trattamento del trauma rispetto alla terapia cognitivo comportamentale.
Alanis nota quanto sia importante una terapia bottom up6 e allo stesso tempo una terapia top down e Levine sottolinea quanto la fusione dei due approcci sia efficace.
Alanis definisce SE® quasi una “full body holistic offering”, un approccio olistico per tutto il corpo, in quanto propone un mix tra il corpo, l’empatia, la sintonizzazione, il rispecchiamento accurato, la convalidazione, .. quel senso di affermazione di sé, della propria autostima. È un qualcosa che andiamo cercando in continuazione nella vita e che nasce dalla sintonizzazione, dall’attaccamento, dal contatto occhi negli occhi, dal contatto pelle a pelle.
Missione e vitalità
Siamo quasi in conclusione e Alanis dice che la sua missione esistenziale è quella di alleviare la sofferenza che c’è nel mondo e lo fa attraverso le sue canzoni. Va di comune accordo con il metodo SE® di Levine che è un approccio alla guarigione, al rilascio della sofferenza o almeno della sofferenza non necessaria.
Parlando di sentimenti ed emozioni, Levine fa una carrellata delle emozioni più frequenti, che sono paura, tristezza, gioia, curiosità e quando Alanis suggerisce la vergogna, Levine segnala quanto la vergogna sia un’emozione primaria perché negli animali è necessaria per la sopravvivenza. Il problema con gli umani è che la vergogna diventa cronica, diventa umiliazione non necessaria, diventa tossica.
Per Levine una delle emozioni più importanti è quella che Daniel Stern definisce “vitality emotion”, l’emozione della vitalità e di essere al mondo ed è ciò che accade con le persone con cui si lavora, dice Levine, che grazie al processo ritornano alla vitalità, al sentirsi vivi, presenti perché, come dice anche Bessel der Kolk “in un certo senso, il trauma è un disturbo che non permette di essere in grado di sentirsi nel presente, nel qui e ora”.
Alla domanda “Di cosa abbiamo bisogno nella nostra vita?” Levine risponde: connessione, con noi stessi, con Dio, con il nostro mondo, il nostro ambiente. Peter qui suggerisce l’esempio di Wikipedia, un sistema che offre a tutti informazioni e conoscenze e che ci tiene connessi nella collaborazione. Alanis suggerisce, cogliendo questo esempio, che la missione di Wikipedia non è raggiungere un alto salario (high salary) ma un alto servizio (higher service). Il servizio sempre più alto è l’evidenza, dice Alanis, dell’inestricabile connessione che noi tutti abbiamo a livello spirituale, tra umani, animali, Dio e il Sè…
E in conclusione Levine dice che la guarigione dal trauma ci porta vicini alla nostra capacità di stare con quanto accade dentro di noi, insieme all’altro, creando più spazio per tutto ciò che è scomodo e che ogni volta rifuggiamo, come le nostre paure, la rabbia e il terrore.
E Alanis conclude affermando quanto sia bello in una relazione poter dire “ho paura” mentre l’altro risponde “so che hai paura, ma io sono qui vicino a te, mi siedo qui accanto a te mentre stai avendo paura”.
Con queste parole che incoraggiano la connessione, la vicinanza nella verità di ciò che sta accadendo, si conclude il podcast.
Ce ne sono ben 21, uno più interessante dell’altro. Buon ascolto!
(1) iper attivazione del simpatico: il sistema nervoso simpatico è una delle due branche del sistema nervoso autonomo - simpatico e parasimpatico - che regola le funzioni di base del nostro corpo, opera automaticamente senza il nostro controllo ed è il punto di origine delle nostre risposte di sopravvivenza. Il simpatico ci prepara all’azione e risponde alla minaccia. Il trauma può portare ad una iperattivazione del SNS portando la nostra fisiologia a rispondere come se la minaccia fosse costante.
(2) parasimpatico: è una delle due branche del sistema nervoso autonomo. Il ramo parasimpatico agisce come il pedale del freno del nostro SNA, ci aiuta a rilassarci e a scaricare l’attivazione associata all’attivazione del ramo simpatico. Una parte del SNP - dorso vagale - è preposta allo spegnimento del sistema per garantire la sopravvivenza.
(3) titolazione: la titolazione in SE® consiste nel lavorare con piccoli pezzi di attivazione che per il cliente sono gestibili.
(4) cervello rettile: detto anche cervello primitivo è la parte più antica del cervello trino (teoria di Paul MacLean) che governa i nostri istinti e riflessi, controlla la nostra risposta fisica di base allo stress o alla minaccia, i nostri riflessi di lotta, fuga e congelamento. Il suo è il linguaggio delle sensazioni.
(5) attivazione: attivazione delle nostre risposte autonomiche (risposte automatiche del SNA) di lotta, fuga o congelamento.
(6) bottom up: è un approccio terapeutico che parte dal basso ovvero dal corpo alla mente (SE® propone un approccio terapeutico bottom up). Diverso dall’approccio top down, che compie il percorso inverso, contatta dapprima la mente e poi passa al corpo.